SICARIO – Denis Villeneuve
Confine tra Stati Uniti e Messico: Kate (Emily Blunt) è un’agente dell’FBI impegnata in alcune operazioni volte a contrastare il narcotraffico. Dopo aver scoperto decine di cadaveri nascosti in territorio americano, viene arruolata da un agente del governo in una task force per compiere una missione speciale e segreta con lo scopo di eliminare un cartello del narcotraffico messicano.
Guidati da un misterioso consulente (Benicio Del Toro), la squadra parte per un viaggio clandestino, dove il protocollo e le regole vengono meno in una lotta in cui tutto sembra consentito e la distinzione tra bene e male va via via dissolvendosi fino a non essere più riconoscibile.
Compiendo un’opera di estrema sintesi, si potrebbe dire che l’ultimo cinema di Villeneuve (Prisoners e appunto Sicario) ruota intorno a questo ultimo concetto: ovvero l’elisione della classica distinzione manichea tra bene e male, tra giusto e sbagliato. I confini un tempo ben marcati, sono progressivamente divenuti labili ed impercettibili fino a non esistere più. In Prisoners era stata l’atroce sofferenza per la scomparsa della figlia a muovere i fili, portando il padre (inizialmente vittima) a superare i limiti della moralità e soprattutto della legalità, imprigionando e torturando allo stremo il sospettato del rapimento. Un ribaltamento dei ruoli privo di superficialità, sgravato da quello che sarebbe stato un semplice e retorico tentativo di dare una risposta definitiva e stereotipata. L’unica verità che interessa filmare a Villeneuve è quella dell’evanescenza stessa di questo confine sempre più impercettibile. Non si può semplicemente scegliere un lato della medaglia, è la vita stessa ad impedircelo.
In Sicario il tema viene riproposto con una ridondanza semantica estrema ed è facilmente rintracciabile in tutti i “significanti” del film. Film che si dimostra a tutti gli effetti un film sul “confine”, partendo da quello geografico tra El Paso e Ciudad Juarez (Stati Uniti e Messico) in cui è ambientato il film, passando da quelli già citati del bene del male, del legale e dell’illegale e arrivando fino a quello più soggettivo tra moralità e immoralità.
Kate, la protagonista, fin dalla prima sequenza si dimostra ligia al protocollo, al quale si aggrappa strenuamente come ad una bussola per orientarsi nella vita. Ma la missione che deve affrontare la conduce in un percorso in cui l’obiettivo finale prevale sul protocollo. Kate è di conseguenza costretta a ricercare una percezione propria e nuova priva dei canonici riferimenti, un percorso gravato da continui tormenti interiori, proprio come avveniva per il protagonista interpretato dell’ottimo Hugh Jackman in Prisoners.
Lo spettatore seguirà lo stesso processo soggettivo di Kate, grazie ad una narrazione filtrata attraverso i suoi stessi occhi. Noi, con lei, verremo a conoscenza gradualmente della cruda verità, ovvero che se si vuole mantenere un controllo sul narcotraffico, non solo che non ci si può attenere strettamente alle regole, ma soprattutto che bisogna accettare l’idea che non potrà mai essere estirpato del tutto, accontentandosi di gestire quei pochi canali ormai già consolidati. Per perseguire questo scopo, l’FBI si affida a task force segrete con lo scopo di eliminare alla radice i “canali” in esubero, che non rientrano tra quelli controllati e conosciuti. Per farlo, sia Kate che lo spettatore, si addentrano in una terra di guerriglia, attraverso passaggi sotterranei, mezzi blindati, armi pesanti, scontri di fuoco,.
Villeneuve come al solito instilla la violenza nella percezione dello spettatore, come un ago sotto pelle, ma non la mostra mai fino in fondo, evitandone una speculativa spettacolarizzazione.
Grazie anche alla fotografia di Roger Deakins, il regista mette in scena un’atmosfera di frontiera densa, diversa da quella intimistica e casalinga di Prisoners, ma altrettanto intensa. Il paesaggio nei suoi spazi e nella sua indeterminatezza, diviene protagonista a tutti gli effetti. Un paesaggio ruvido, in cui il peso incessante dei silenzi fatica a lasciar spazio alle parole, spesso scarne, di dialoghi sempre un po’ stanchi e trascinati in un film contemplativo. La fatica ha poi il volto, solenne e sublime, di un Benicio del Toro incattivito e determinato nel suo percorso di vendetta, ma dall’aria stanca e sbattuta di chi ha troppo vissuto alle spalle.
Lo scontro morale si propaga per tutta la narrazione, mettendo in antitesi la ferrea convinzione di Kate nel voler rispettare sempre e comunque le regole e la disincantata pragmaticità dell’agente della CIA Matt (Josh Brolin) e di Alejandro (Benicio Del Toro), fino al confronto finale, dove Alejandro senza troppe parole, fa capire a Kate come l’unica via per rimanere in vita sia il suo silenzio sui fatti accaduti e, quindi, la definitiva rinuncia al proprio sistema di valori.
Come Prisoners, Sicario è un film solido, senza svolazzi e artifici, mai pretenzioso né auto-celebrativo, che non mira a insegnamenti morali di alcun genere. Forzando un po’ l’analisi si potrebbe parlare di un’esposizione fin troppo lineare, ma, per chi scrive, perfettamente appropriata a dipanare una storia fatta più di terra e corpi che di parole. Unico difetto (forse) quello di una scrittura che avrebbe potuto delineare meglio le sfumature dei singoli personaggi, qui leggermente stilizzati al servizio della dissoluzione progressiva delle posizioni estreme – bene o male, legale e illegale, ecc. – e quindi utili soprattutto alla costruzione del “confine” come elemento chiave e ricorsivo del film.
Denis Villeneuve, più di ogni altra cosa, firma un film visivamente suggestivo e avvolgente, fatto di lente e lunghe inquadrature. Sublimi le sequenze con cui ci addentriamo silenziosamente dentro gli angoli di Ciudad Juarez, nel cuore di un tessuto connettivo malato, fatto di corpi marcescenti appesi per le strade, colpiti da un sole accecante. Una resa visiva evocativa, dai ritmi blandi e dai respiri profondi, che hanno il sapore di una compiuta “estetica dell’atmosfera”, in grado di affascinare e coinvolgere più della storia stessa, la quale sembra quasi stagliarsi sullo sfondo, come un orpello secondario, nel lento incedere ipnotico del film.
“Non affacciarti alla finestra. Questo oramai è territorio di lupi.”
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