GREEN CARNATION – “The acoustic verses”
Molta strada hanno percorso i norvegesi Green Carnation da “Journey To The End Of The Night”, compiendo la coraggiosa scelta di incidere un disco completamente acustico. Atmosfera, feeling, calore e malinconia sono i punti cardine che echeggiano nelle orecchie dopo l’ennesimo ascolto di questo album. Avanza come una marcia “Sweet leaf”, con un cantato solenne e caldo fino a metà canzone quando la voce si alza assumendo un registro simile a quello del Bono Vox più melodico mentre il basso accompagna l’incedere fino al concludersi della marcia.
Tocca corde più intime “The burden is mine…alone” supportata da un arpeggio semplice ed incisivo. I versi sussurrano dolore, solitudine, uno stato d’animo in cui l’uomo è vittima di se stesso; in questo caos emotivo “..I’m sorry, I couldn’t wait anymore”. Probabilmente questo è il pezzo più toccante dell’intero album, nonché EP apripista e brano interamente composto e suonato da Stein Roger. A “Maybe?” tocca l’arduo compito di non far calare il climax raggiunto dalla precedente traccia. Sebbene cominci in modo più canonico, a metà canzone ricompare la batteria ed emergono cori a rendere più liquido l’insieme grazie anche ad un assolo di Theremin ad opera di Krumins.
“Alone” si apre come una danza baroccheggiante in cui i violini invitano ad alzarsi per prenderne parte. Il lato più folk del platter qui è costante, anche dal lato prettamente lirico, il testo infatti è basato su un poema di Edgar Allan Poe (“Alone” appunto). Non devono spaventare i 15 minuti di “9-29-045”, il brano è delicato, evocativo e molto sentito, capace di far trasparire anche sonorità più anni ’70, legate un po’ai grandi Pink Floyd, un po’ai Genesis. Il rock progressivo ben si adatta in sede acustica e gli arrangiamenti orchestrali supportano le chitarre nei meandri del sogno che la band norvegese ha creato. Come non citare le aperture melodiche dei violini chine sui tappeti orchestrali dolcemente accompagnati dal mellotron. “Childs play part III” riprende strumentalmente le prime due parti uscite nel precedente “Quiet Offspring”, e stavolta è il pianoforte a farla da padrone in un breve intermezzo che apre la strada alla conclusiva “High tide waves”. Blues e atmosfere jazzate irrompono indurendo anche voci e percussioni ma soffocandosi fino ad un ritorno ad atmosfere soffuse. Accordi acustici e cori spingono fino ad un break centrale ricco di colpi sui tom e violini che sembrano accarezzare l’aria, sospingendo la nave su cui siamo saliti. L’album si chiude in un assolo spagnoleggiante che riporta i temi già arpeggiati ad inizio song.
E’ bene metterlo in chiaro, non è un disco metal come i precedenti (almeno, considerando la matrice), ma è altrettanto importante sottolineare che ci si trova di fronte ad un disco composto, suonato e cantato col cuore. Questo non è poco. Respirare profondamente gli stati d’animo narrati e lasciarsi cullare dalle note di una chitarra acustica provando emozioni è ormai uno status più unico che raro. Da evitare accuratamente per chi è fan del solo muro sonoro, ma caldamente consigliato a tutti gli altri. Un’esperienza da vivere.
Tracklist
1. Sweet Leaf
2. The Burden Is Mine…Alone
3. Maybe?
4. Alone
5. 9-29-045
-My Greater Cause
-Homecoming
-House of Cards
6. Childs Play part III
7. High Tide waves