I SOLITI SOSPETTI – Bryan Singer
California. Un incendio divampa su una nave, divorando ventisette vite, probabilmente per un giro di droga le cui redini non erano gestite dalle persone giuste. I sopravvissuti sono soltanto due: Verbal Kint, un pesce piccolo zoppo e viscido, e un ungherese gravemente ustionato, bloccato sul lettino d’ospedale. L’agente speciale David Kujan viene coinvolto nelle indagini, che partono proprio dall’interrogatorio di Kint.
Sospinto dal genio di Orson Welles di Rapporto Confidenziale (1955), Bryan Singer costruisce un thriller-noir articolato, scomposto in ellissi la cui forza centrifuga ricompone via via i tasselli del mosaico, seguendo uno schema non cronologico e, conseguentemente, più semplice da ingarbugliare per far seguire allo spettatore una strada sbagliata. Il deus ex machina stesso, Verbal Kint (Kevin Spacey), essendo egli stesso narratore degli eventi, diviene una sorta di infido Caronte, impossibile da decifrare sotto la corretta luce, esasperando chi osserva (e l’agente Kujan) in una strada complessa e ricca di giochi di potere.
I soliti sospetti sposta la parte l’azione per concentrarsi sui dialoghi, la ricostruzione poliziesca degli eventi, preferendo la costante linea di tensione alla deflagrazione della stessa tramite azioni convulse (inseguimenti o sparatorie). La ricerca dell’enigmatica figura di Keyser Soze diviene una lotta contro il male incarnato, una corsa contro il tempo per frenare una sorta di super-criminale dai contorni sfuggenti, in un climax unico che segna uno spartiacque nel cinema indipendente thriller- noir.
Tag:Benicio del Toro, Bryan Singer, Chazz Palminteri, film indipendente, film noir, Gabriel Byrne, I SOLITI SOSPETTI, I SOLITI SOSPETTI recensione, Kevin Spacey, Keyser Soze, Stephen Baldwin, thriller noir